giovedì 3 aprile 2014

Carne

Immaginava un esercito di donne - diverse per corporatura, età, colore di occhi, capelli, pelle - ma simili negli accorgimenti seduttivi: smalto ai piedi, sesso rasato, pronte a ricevere istruzioni, attente ai particolari e maliziosamente accoglienti. Se le figurava nude, scarpe con tacco, in fila, pronte per la conta e per la monta, ciascuna con un soprannome e un numero di riconoscimento associato a una cartella nascosta su un pc. In allegato per ciascuna un servizio fotografico ad hoc, ispirato al fantasie registiche dello stesso annoiato maestro dei giochi carnali. Pensava a tutta quella carne bianchiccia o abbronzata, tonica o cadente, reale e tangibile, giovane o vecchia. Un esercito di vacche anonime da condurre al macello, a scandire la marcia una musica d'accompagnamento banale e grottesca, tipo Like A Virgin. Poi le immagini delle riviste porno messe per scherzo dai compagni di scuola negli spogliatoi delle ragazze alle Medie, immagini che disgustavano e attraevano al tempo stesso, parti anatomiche che gridavano in copertina, pezzi di carne che dissociava dalla sua idea di corpo, che faticava a riconoscere. In quei tempi di preghierine e primi baci sembravano appartenere a un'altra specie umana. La turbava, allora, non conoscere il perché della forza di quelle immagini che nascondevano un mistero peccaminoso e conturbante. L'imbarazzo della sua carne bambina compressa nel costume, in piscina con gli altri bimbi che quell'imbarazzo ancora non conoscevano o certo sentivano meno tragicamente. Il suo corpo grassoccio non traeva benefici dalle leggi fisiche: andava a fondo o lo desiderava. La sua carne adolescente torturata talvolta con aghi e lamette, la carne che nascondeva col nero degli abiti, con una divisa da dura,asessuata. C'era una volta una ragazza con l'esigenza di scordare il proprio corpo, di scioglierlo nella danza, di sottometterlo a vari giochi chimici del cervello. C'era una separazione tra la percezione di sé e la sua presenza fisica: odiava il suo corpo e al contempo desiderava essere accettata e desiderata per quello stesso corpo cui avrebbe voluto rinunciare. Anni prima allo specchio provava scarpe alte da donna e lingerie sexy di sua madre per prendere confidenza, provare ad apprezzare qualcosa di quella carne. Qualcosa era eccitante in questo gioco vergognoso e segreto. Qualcosa che arrossava le guance e riscaldava giù in basso,in quella parte oscura che nessuno ancora aveva esplorato. Il corpo diventava simile a quello delle donne adulte, ma la carne era sempre troppa e mal distribuita. Avrebbe voluto vedere e conoscere tutto di quel corpo, vedersi con gli occhi di un altro. Capire a cosa serviva, oltre a tenerla in vita. La carne invasa da carne estranea. Scoprire che può essere piacevole e creare dipendenza e assuefazione. Amare la carne altrui, scoprirne i dettagli. Provare trucchi. Mascherare la grassezza, i difetti dell'adolescenza. Cercare accettazione. Poi:cambiare trucco. Mascherare le rotondità, i difetti confermati. Cercare approvazione. Mascherare i trucchi. Sollevare le rotondità, nascondere i soliti vecchi difetti. Cercare visibilità. Coprire la carne. Scoprire la carne. Seguire la carne. Sostenere la carne. Nutrire la carne. Tutto uno sforzo ad affermare la propria specialità, riconoscerla a se stessa, farla accettare agli altri e magari riuscire ad amarla, per poi scoprire che in fondo non siamo che carne da esibire, comprimere, nutrire, assecondare, sedare. A volte nemmeno scelta per la totalità del corpo, ma per uno specifico dettaglio, proprio come da un macellaio potresti scegliere il miglior filetto, una semplice bistecca, un fegato o un capocollo.

giovedì 21 giugno 2012

cambio di stagione

Gli oggetti dimenticati per una parentesi di anni. Riemersi dalla polvere o dalle scatole o dai cassetti, reclamano memoria e tonfi al cuore con una capriola indietro nel tempo, inaspettata e diretta. Una trama stretta quella della vita, che prima o poi costringe ad un passaggio decisivo, recidere fili, affrontare il passato o affondarlo. Qualcosa rimane, tra le pagine chiare e le pagine scure, forse solo quel che è importante davvero. O forse i vizi più duri a morire, che forse moriranno con noi.

giovedì 1 marzo 2012

Disgusto

Ogni volta che torno a casa da una giornata in Valsusa ho la sensazione di tornare da un altro mondo.
Un mondo dove esistono persone che si battono e resistono per principi e valori comuni e non solo individuali; persone informate sui fatti per necessità e per buona abitudine, non per sostenere chiacchiere da bar, dibattiti su social network, o per giocare ai radical chic sempre fuori dal coro.
Persone che hanno smesso di credere alla retorica e alle false ideologie dei politici, che hanno imparato a superare le differenze di età e di cultura per collaborare e inventare nuovi modi di reagire alle imposizioni di chi siede ai posti di comando.
Persone concrete, che con determinazione e costanza non si fanno abbattere dalla forza bruta e dallle attese estenuanti in autostrada o altrove.
Persone che con poche frasi semplici sanno spiegarti i motivi della loro protesta, che basterebbe ascoltarli per comprendere davvero.
Assisto a fatti terribili, segno di un'era che vede il fallimento della democrazia.
Vedo poliziotti protetti da scudi e caschi picchiare anziani, uomini e donne.
Penso ai ragazzini che li accompagano, a quale idea si faranno delle forze dell'ordine.
Ancora una volta si sceglie l'uso massiccio di gas cs su una popolazione disarmata, che reagisce solo DOPO l' attacco spropositato con idranti e lacrimogeni lanciati ad altezza uomo. Solo allora risponde all'attacco con le pietre raccolte dal selciato. Ancora una volta pietre contro i mostri.
In macchina accendo l'unica radio che informa su quel che succede in diretta e ascolto dal vivo la voce di un redattore stremato dai gas che continua comunque a raccontare quel che accade.
Torno a casa, alla "normalità".
Un dormitorio.
I giornalisti raccontano una versione alterata dei fatti, l'ultim'ora è sul ferimento di un carabiniere e di un agente.
Non si parla delle violenze subite dai manifestanti senza maschere e a mani alzate, non si parla dell'irruzione insensata dei poliziotti in un ristorante, di come distruggono la porta a vetri solo per non aver capito che l'ingresso accessibile era un altro, non si parla delle macchine colpite dai manganelli senza alcuna ragione. Non si parla delle donne ferite e beffeggiate, delle teste rotte, delle persone che all'ospedale non ci andranno per la paura di finire in pasto ai mostri.
E poi le dichiarazioni dei politici, fuori da ogni realtà, insensate, acqua di rose per detergere latrine. La Cancellieri sulle richieste degli amministratori locali: "Sono pronta ad ascoltarli ma nello stesso tempo vorrei che a loro fosse chiaro che non esistono margini di trattativa per bloccare i lavori della Tav”. Cosa vuol dire? "si si parla pure, io ti ascolto, ma me ne frego".
Della stessa idea anche Fassino, solo per restare nell'area più moderata perché le dichiarazioni più a destra non val la pena riportarle.
E i giornalisti...ma come è possibile vivere bene sapendo di raccontare menzogne a un'intera popolazione?
Come è possibile continuare a far finta di niente?
Come è possibile parlare di progetto approvato democraticamente quando da vent'anni la gente si oppone con forza e determinazione al TAV? Quando non si è mai chiesto il loro parere?
Come fa ad affermarlo un giornalista di Repubblica?

La normalità è un universo di zombie assetati di aperitivi, farfalline tatuate e morti da celebrare.

lunedì 4 luglio 2011

quel che ho imparato a Chiomonte

Gli effetti benefici del bicarbonato e l'uso alternativo dei limoni: ieri ho imparato come alleviare il fastidio arrecato dai gas lacrimogeni con mezzi di fortuna.

Ho imparato l'importanza della strategia e del coordinamento di qualunque movimento, minuscolo o maiuscolo, che si tratti di organizzazione politica, di guerriglia o di fuga.

Ho imparato soprattutto dagli anziani della Valsusa, a loro volta smaliziati dall'esperienza e dalla collaborazione con chi - per motivi diversi più o meno nobili - è avvezzo al confronto diretto con il bastone dell'autorità.
Ora che anni di proteste partecipate e pacifiche messe sotto silenzio o strumentalizzate per raccogliere consensi hanno esasperato gli animi di chi difende le sue ragioni dimostrando l'inefficacia di qualunque confronto civile è successo l'inevitabile.

Ho conosciuto la rabbia sassaiola dell'impotenza che il più delle volte rimbalza sul muro di scudi dei robot ammaestrati – caschetto blu e manganello - rabbia che si rinnova ascoltando le dichiarazioni ipocrite e confezionate con meticolosità dalle sartine dell'informazione generalista.

Ho imparato che viviamo in paesi diversi pur condividendo lo stesso territorio - io, mia madre, le forze dell'ordine e chi dovrebbe rappresentarci per esempio - ciascuno con la sua propria consapevolezza delle cose del mondo connotata da una sua personale concezione (e buona fede) della (e nella) democrazia.

Le diverse anime della protesta: chi manifesta per solidarietà, chi per sfogare la propria frustrazione, chi per socialità, chi per necessità. Ciascuno, certo, con le proprie contraddizioni volendo esaminare le cose da un punto di vista scientifico.

Di norma è il punto di vista umano quello che più m'interessa, anche se è l'interpretazione politica a suscitare in me i più acuti spasmi di sdegno.

mercoledì 23 marzo 2011

Terza riflessione: cubocomunista

Un palazzo squadrato con bandiere tricolori (che di questi tempi van di moda superpartes) insieme alle altre del sindacato. Pioggia fitta di fine inverno grigia, torinese. Entro nel portone con un sentimento a mezzo tra il timore della delusione e l’orgoglio della rivendicazione. Sapevo già che come per ogni sede istituzionale che si rispetti l’impatto non poteva che essere permeato dalla pesantezza della burocrazia e l’ennui da funzionario statale un po’ nostalgico, in linea con l’ormai desunto spirito del tempo di una qualunque rossa repubblica popolare ai tempi del baffone. Però ancora ci credo un po’ al mio sindacalista, quello che mi spronava alla vertenza e alla lotta di classe anche laddove la classe non c’è. E si perché il problema primo è la mancanza di una classe a cui fare riferimento per condurre la mia battaglia contro i mulini a vento: il mio è un problema anzitutto personale, individuale. E – nel caso non mi fosse ancora abbastanza chiaro - me lo ricorda una donnona bionda nel suo ufficio dove cerco consiglio o almeno una qualche consolazione ideologica.

lunedì 28 febbraio 2011

Seconda riflessione: il cubo

Tempo fa io e una mia collega abbiamo parlato dei nostri reciproci colloqui pre-assunzione.
Mi è rimasto impresso soprattutto il modo in cui lei mi raccontò di aver risposto alla classica domanda del responsabile del personale: “come vedi questo ipermercato?”: “un cubo”, disse. 
In effetti è proprio così: prima di tutto il posto in cui lavoro da ormai dieci anni è, all’apparenza, un cubo di cemento, una di quelle costruzioni considerate “all’avanguardia” nel momento in cui sono sorte - agli inizi degli anni '80 - e che oggi, ormai, risultano solo tristi cubi sbiaditi. 
Non possono certo reggere il confronto con le sedi delle nuove aperture, avveniristiche e ultramoderne cattedrali dell’era consumistica erette strategicamente in diversi luoghi del mondo globalizzato.
Anche la struttura organizzativa di questo tipo di ipermercato in un certo senso risponde alla logica strutturale del cubo. Secondo la definizione di Wikipedia, infatti, il cubo: “è il solo tra i solidi platonici che, con sue repliche, è in grado di riempire lo spazio con regolarità, cioè di fornire una tassellazione dello spazio”.
E anche il modello strutturale e gerarchico del punto vendita in cui lavoro - grazie alla sua organizzazione rigorosa, al controllo attento delle singole parti che lo compongono, all’istituzione di precise regole interne - è ripetibile ed esportabile con successo nello spazio, sia nella struttura che nella filosofia.

giovedì 24 febbraio 2011

Prima riflessione. Sul futuro già presente

Ci abitueremo a tutto. Alle morti dei parenti più stretti, alle nuove costruzioni disordinate, agli eco-mostri misteriosi in cemento e acciaio.
Ci abitueremo alle strade divoranti i campi, alle rovine di dieci anni fa - non resteranno monumenti da ricordare del nostro passato prossimo, solo sacchetti di plastica e discariche abusive a concimare fragole fuori stagione. Le autostrade costeggeranno paesaggi simili a fondali marini inquinati da resti di fabbriche esportate in Cina.
Siamo cresciuti in un limbo. Non abbiamo padri da uccidere, perchè in fondo mai ci hanno riconosciuti.
Hanno organizzato per noi feste aziendali in cui sfoggiare le nostre maschere e code in segreteria per pagare tasse sul nostro futuro d'intellettuali precari.
La nostra infanzia è stata un cartone animato giapponese con abuso di merendine industriali, un asilo catodico per proteggerci dalle liti famigliari o dai divorzi. Ci abitueremo all'anoressia e alla bulimia, alle finte minorenni, alle finte maggiorenni e ai progressi della chirurgia estetica.
Abbiamo imparato il sesso da riviste adolescenziali, lo abbiamo praticato per sentirci adulti, per sentirci accettati, per sentirci vivi. Qualche volta, - forse - per amore.
Siamo diventati adulti senza lasciare l'adolescenza. Abbiamo adorato un dio senza conoscerlo.
Ci hanno raccontato tutto senza dirci niente. Abbiamo infinite libertà di scelta come telespettatori e abbastanza come consumatori. Quasi nessuna come cittadini.
Ci abitueremo a tutto. Ai terremoti senza ricostruzione, alle cadute di Pompei, ai 25mila licenziamenti, alle immagini dei bambini panciuti ricoperti di mosche. Ci abitueremo agli omicidi irrisolti, ai matricidi e agli infanticidi. Ci abitueremo alla decadenza morale di chi ci governa -  abbiam già fatto passi da gigante - ci abitueremo alla finta indignazione, alla rassegnazione, ai vuoti dibattiti virtuali su social network alla moda, alla morte cerebrale delle passioni e degli ideali politici. Ci abitueremo alla perdita di memoria storica e all'abuso di psicofarmaci.
Ci rassegneremo all'asetticità clinica dei nostri ultimi giorni.
Non avremo figli a cui affidare le nostre badanti.