mercoledì 23 marzo 2011

Terza riflessione: cubocomunista

Un palazzo squadrato con bandiere tricolori (che di questi tempi van di moda superpartes) insieme alle altre del sindacato. Pioggia fitta di fine inverno grigia, torinese. Entro nel portone con un sentimento a mezzo tra il timore della delusione e l’orgoglio della rivendicazione. Sapevo già che come per ogni sede istituzionale che si rispetti l’impatto non poteva che essere permeato dalla pesantezza della burocrazia e l’ennui da funzionario statale un po’ nostalgico, in linea con l’ormai desunto spirito del tempo di una qualunque rossa repubblica popolare ai tempi del baffone. Però ancora ci credo un po’ al mio sindacalista, quello che mi spronava alla vertenza e alla lotta di classe anche laddove la classe non c’è. E si perché il problema primo è la mancanza di una classe a cui fare riferimento per condurre la mia battaglia contro i mulini a vento: il mio è un problema anzitutto personale, individuale. E – nel caso non mi fosse ancora abbastanza chiaro - me lo ricorda una donnona bionda nel suo ufficio dove cerco consiglio o almeno una qualche consolazione ideologica.
Vi approdo dopo qualche minuto di attesa in un corridoio in stile caserma introdotta dall’accoglienza non proprio calorosa di un’anonima…segretaria? Consulente? Delegata? Insomma, una “compagna” di mezza età che m’immagino viva nel rimpianto delle belle lotte di una volta, scandite da interpretazioni al Lambrusco di brani storici come Contessa e Per i morti di Reggio Emilia, intonati per scaldarsi e far passare le nottate durante le gelide occupazioni operaie post Sessantotto. A lei chiedo del mio sindacalista, quello di cui sopra che mi incitava a uscire dal torpore aziendalista e rivendicare i miei diritti. “Non c’è” mi ha risposto lei indirizzandomi verso l’ufficio. E da brava compagna mi ha subito dato del tu - con un tono un po’ sgarbato - nonostante il mio approccio formalmente garbato. Lui non c’è e devo ammettere che la sua è stata una regolare non presenza per me e per le mie colleghe fino a questo momento. In questo bisogna ammettere che i sindacati son costanti.
Nell’attesa osservo la gente di passaggio fuori dagli uffici: una ragazza con un abbigliamento che definirei “emancipato”, di uno stile che pare un compromesso tra quello di una segretaria creativa e quello di una squatter anni Novanta; un sindacalista che spiega a un africano “noi qui non possiamo far niente. Devi andare lì dove ha sede la tua azienda e farti fare la tessera”.
Prima di tutto la tessera, altra costante fondamentale.
Non ne passa molta gente qui al terzo piano. Arriva una donna, anche lei straniera, con un passeggino e un bambino. Anche lei aspetta di entrare nel mio stesso ufficio ed entra per prima perché ha preso un appuntamento. Poi arrivano un ragazzo con una divisa che non conosco accompagnato dalla madre. Chissà quali tristi storie, mi chiedo. La mia in fondo non è niente di speciale: sono qui prima di tutto perché devo rispondere a una lettera di contestazione disciplinare, ma in realtà quel che più mi affligge è la mancanza di chiarezza rispetto ai diritti sanciti dal mio attuale contratto di lavoro e l’urgenza di farmi giustizia di fronte a una pressione costante da parte del mio responsabile di settore. Non mi vede di buon occhio da molto tempo perché non mi considera in linea con il modello aziendale e per questo esercita nei miei confronti una sorta di persecuzione infima e sottile. Finalmente entro e provo a spiegare il mio intangibile disagio personale. Poche parole perché mi accorgo che manca empatia.
Lei mi scrive la letterina di risposta secondo quelle che sono le regole del caso (anche se non bada troppo alla “bella forma” dell’italiano, tant’è che a casa la riscriverò) ma non ha risposte precise alle mie domande sul contratto – “è in discussione proprio in questo periodo quello nazionale e il nostro sindacato ha indetto uno sciopero per ribadire il nostro no alla versione proposta in fase di contrattazione”. Infine, minimizza il mio disagio bollandolo come “caso personale”. Ed è questo il problema: far comprendere il fallimento di una certa impostazione della “lotta”, far capire che è proprio attraverso il personale che si può giungere al collettivo in molti ambienti di lavoro. Oggi più che mai. Prima di tutto perché esistono tantissimi contratti diversi per un unico luogo di lavoro, poi perché - soprattutto in certi ambienti - è la mentalità stessa che è stata modellata dall’azienda al torpore e alla rassegnazione. In un periodo come questo di sfiducia totale nei confronti di qualsiasi organo istituzionale e politico è di fondamentale importanza la presenza concreta e costante del sindacato per riuscire a sensibilizzare e risvegliare le coscienze dei lavoratori spingendoli alla rivendicazione dei propri diritti. Dovrebbe esserci una fase di sincera autocritica e una revisione dei tradizionali metodi di lotta, preceduta da una campagna di formazione massiccia rivolta ai nuovi lavoratori impauriti dai ricatti e dal precariato. Questo se il sindacato avesse davvero a cuore la propria missione e volesse davvero guadagnarsi il rispetto dei propri tesserati.
Invece no. La donnona un po’ germanica mi congeda in fretta. E mi lascia un volantino da attaccare in bacheca che faccia le veci di un delegato che non c’è e non vuole esserci.



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