Un palazzo squadrato con bandiere tricolori (che di questi tempi van di moda superpartes) insieme alle altre del sindacato. Pioggia fitta di fine inverno grigia, torinese. Entro nel portone con un sentimento a mezzo tra il timore della delusione e l’orgoglio della rivendicazione. Sapevo già che come per ogni sede istituzionale che si rispetti l’impatto non poteva che essere permeato dalla pesantezza della burocrazia e l’ennui da funzionario statale un po’ nostalgico, in linea con l’ormai desunto spirito del tempo di una qualunque rossa repubblica popolare ai tempi del baffone. Però ancora ci credo un po’ al mio sindacalista, quello che mi spronava alla vertenza e alla lotta di classe anche laddove la classe non c’è. E si perché il problema primo è la mancanza di una classe a cui fare riferimento per condurre la mia battaglia contro i mulini a vento: il mio è un problema anzitutto personale, individuale. E – nel caso non mi fosse ancora abbastanza chiaro - me lo ricorda una donnona bionda nel suo ufficio dove cerco consiglio o almeno una qualche consolazione ideologica.